Ottimismo: visione o creazione della realtà? Posta l’alternativa in questi termini secchi, non saprei quale delle due scegliere. Se rispondo che l’ottimismo è “visione” della realtà, mi si potrebbe dire che chiudo gli occhi davanti al male e adotto una concezione ingenua della vita. Se rispondo che è “creazione” della realtà, ecco qualcuno pronto a giurare che sono un idealista, un hegeliano di destra, e che non credo nell’esistenza oggettiva delle cose. Essendo cattolico e simpatizzante di san Tommaso (si può dire in una rivista… francescana?), potrei cavarmela con un et-et: perché, in effetti, penso che l’ottimismo sia visione e creazione della realtà. In un certo senso il vocabolario Treccani conforta questa mia scelta, illustrando così il termine “ottimismo”: «Nel linguaggio comune, la disposizione psicologica che induce a scegliere e considerare prevalentemente i lati migliori della realtà, oppure ad attendersi uno sviluppo favorevole del corso degli eventi (in contrapposizione a pessimismo)».

L’ottimismo è prima di tutto visione, perché scorge e apprezza nella realtà quegli elementi positivi, spesso nascosti, che la tradizione cristiana, inaugurata da Gesù e rilanciata da san Giovanni XXIII, chiama “i segni dei tempi”. È famoso il passaggio di papa Giovanni nella bolla di indizione del concilio Vaticano II: «Anime sfiduciate non vedono altro che tenebre gravare sulla faccia della terra.

Noi, invece, amiamo riaffermare tutta la nostra fiducia nel Salvatore nostro, che non si è dipartito dal mondo, da Lui redento. Anzi, facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere “i segni dei tempi” (Mt 16,3), ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della Chiesa e della umanità» (Costituzione apostolica Humanae Salutis, del 25 dicembre 1961).

Il cristiano non può accodarsi ai lamentoni di professione – da papa Giovanni più elegantemente definiti “anime sfiduciate” – i quali vedono sempre nero, rimpiangono continuamente i bei tempi andati e prospettano catastrofi per il futuro; e non perché il cristiano sia ingenuo, ma perché ha fede in un Dio incarnato, presente, amorevole e provvidente.

Un Dio che ha perforato perfino il muro della morte, aprendovi un varco di vita. Un Dio capace di rischiarare il buio della sofferenza, mantenendo accesa la lampada della speranza. Per il cristiano queste non sono parole al vento, facili consolazioni o versi poetici: sono il faro dell’esistenza. Lo Spirito, per mezzo del quale “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5), lavora in profondità e spesso – come è nello stile dell’amore vero – nel silenzio e nell’indifferenza di tanti.

Il primo compito del cristiano è quello di pulirsi bene gli occhi (o gli occhiali, nel caso) per vedere il bene già esistente attorno a lui e per collaborare a perfezionarlo. Adottando questa ottica, il concilio Vaticano II ha saputo avviare o riattivare un vero dialogo tra il vangelo e le culture, tra il cristianesimo e le altre religioni, tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese e comunità cristiane.
Erio Castellucci Arcivescovo di Modena-Nonantola)

 

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