RACCONTI DI DONNE DURANTE LA GRANDE GUERRA DEL '900

 Quest’anno abbiamo organizzato a Castelplanio la Via Crucis con il Cireneo, le donne velate, i simboli della passione, il Cristo morto e Maria la Madre, con tappe di meditazione, ascoltando racconti di donne che hanno vissuto la Grande guerra del ‘900 e hanno custodito la Speranza di un possibile futuro di pace.

CI RACCONTA LINA di Tolentino (MC):  Ho vissuto il giorno del matrimonio come un giorno di dolore, perché era durante la guerra. Dopo un mese infatti mio marito è ripartito, è andato alla marina di Rimini. La fortuna è stata che tornato dall’Albania non c’è più tornato. Da Rimini veniva qualche volta perché lo chiamavo con la scusa che i genitori stavano male. Almeno potevo vederlo. Poi alla fine della guerra tornò finalmente. La guerra fu molto brutta. Mio marito mi diceva di non uscire neppure per chiudere i polli. Cenavamo allo scuro quando c’erano i bombardamenti. Vedevamo volare le pallottole da un colle all’altro.

CI RACCONTA ROSARIA di Macerata: Ci sposammo e dopo pochi mesi di matrimonio mio marito è dovuto partire per la guerra mentre io ero già in cinta della nostra prima bambina. Prima di andare in Albania per la guerra, mio marito riuscì a vedere la bambina. Tornò dopo tre anni. Io, durante quel periodo, piangevo sempre perché non si sapeva come sarebbe andato a finire.  Mi consolava solo il pensiero che avevo la bambina e sapevo che lui le voleva molto bene e voleva bene anche a me. Più tardi gli diedero una licenza per una operazione di ernia che doveva fare. Tornò a casa e potemmo godere momenti di speranza.

CI RACCONTA MARIA di Cagli (PU):   Durante la guerra i Tedeschi passavano per le case di campagna. Così per non correre pericoli andai a stare da mia madre e lì mi nacquero due gemelle con un parto prematuro, all’ottavo mese di gravidanza. Erano piccolissime. Le battezzammo subito perché il medico aveva detto che sarebbero morte. Il giorno dopo il parto fummo costrette ad andare nel rifugio. Io misi le due gemelle in una scatola di scarpe di mio marito tanto erano piccole e ci nascondemmo. Passai tutta la notte sveglia perché avevo paura che le gemelle morissero. Invece sono vissute, anche perché ho dato loro il mio latte visto che ne avevo parecchio. Poi le bombe rasero a terra la casa dei miei suoceri. Non avendo più la casa dove ero vissuta da sposata rimasi da mia madre.

CI RACCONTA IOLE DI JESI:  Ho vissuto una giovinezza poco bella. Ho perso i miei genitori quando ero poco più che ragazzina. Fin da giovane ho dovuto lavorare molto. Anche da sposata non ho potuto fare a meno di faticare per guadagnarmi la vita. Ho fatto diversi lavori: la contadina, l’operaia presso le industrie dei cavoli etc… Dovevamo raccoglierli e metterli nelle cassette per spedirli nei camion. In questa zona c’è sempre stata la coltivazione dei cavoli. Ho fatto anche la magazziniera. Ma il periodo più lungo è stato quello del lavoro presso la fornace di mattoni. Era molto duro In compenso i padroni mi volevano bene. Quando i mattoni uscivano dalla fornace erano bollenti e si può immaginare il pericolo di scottature. Ma quello era il lavoro offerto a noi donne per guadagnare. Il padrone ci diceva: “Ragazze, se ben cominciate, vi troverete bene nella vita e riuscirete a restare in questo posto per molto tempo”.  Infatti fu così. Cercavo di non perdere mai tempo; lavoravo senza chiacchierare. Così producevo molto. Mi sentivo ben voluta.

CI RACCONTA MARIA ROSARIA DI ASCOLI PICENO: C’era tanta povertà al tempo della guerra, ma c’era anche la generosità. Mia madre, per esempio, che aveva il mulino dell’olio, lasciava da parte tutti gli anni una damigiana di olio e a Natale lo donava ai poveri. Arrivato il momento lo metteva nelle bottiglie e mandava me che ero la più piccola a portarlo nelle case di quelli che avevano bisogno. Siccome di bottiglie non ce n’erano tante, ogni volta che andavo in una famiglia aspettavo che me la vuotassero per riportarla indietro. Non è come adesso che si butta via in continuazione. Ai poveri, d’inverno, si portavano anche gli “ossi” cioè i noccioli puliti delle olive che si bruciavano per riscaldarsi. Li davamo via a sacchi. Mia madre però raccomandava a chi li portavo di dire prima alle persone interessate che avrebbero lasciato il sacco in fondo alle scale e che il vuoto potevano restituirlo quando volevano. Lo faceva per non offendere chi li riceveva e perché non si sentissero obbligati a dire grazie. Adesso invece se uno ti da mille lire lo deve scrivere cento volte per sottolineare che te le ha date. Quante altre cose si davano ai poveri! Ricordo che quelli di casa mia mi mettevano addosso una sciarpa, visto che i cappotti quella volta non c’erano, e mi mandavano a portare la roba facendomela nascondere sotto la sciarpa per non farla vedere alla gente. E io andavo bussando alle porte.

 

 

 

 

 

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