In occasione dell’apertura del concilio, l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII pronunciò la prolusione Gaudet mater ecclesia, un testo ispirato, profetico, che orientò lo svolgimento del Vaticano II in modo differente rispetto ai concili precedenti. Consapevole che la Chiesa ha il dovere di opporsi agli errori e anche di condannarli con la massima severità, come era avvenuto nel passato, Papa Giovanni tuttavia dichiarava con convinzione: «Quanto al tempo presente … la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece che imbracciare le armi del rigore… Così la Chiesa cattolica … vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati».

Con queste parole si poneva fine a un’epoca caratterizzata da una forte intransigenza assunta nella dottrina, nella morale e nel confronto tra Chiesa e società, tra cattolici e quanti non appartenevano alla Chiesa. È l’apertura al dialogo che successivamente Paolo VI delineò in modo mirabile nell’Ecclesiam suam e che il concilio fece propria, aprendo brecce, abbattendo muri e bastioni, inaugurando quello scambio, quell’ascolto dell’umanità di oggi che in questi cinquant’anni ha sì conosciuto rallentamenti, senza tuttavia mai venir meno.

È in questa linea che, fin dall’inizio del suo pontificato, Papa Francesco ha fatto risuonare con tono rinnovato e forte la parola misericordia. Le parole rivolte ai parroci di Roma nel marzo dello scorso anno — «[occorre] ascoltare la voce dello Spirito che parla a tutta la Chiesa in questo nostro tempo, che è proprio il tempo della misericordia. Di questo sono sicuro. Noi stiamo vivendo in tempo di misericordia» — rivelano il cuore e il programma dell’attuale pontificato.

 

Più che mai oggi i cristiani, e gli uomini e le donne con loro, in questa situazione mondiale che sentono tanto precaria e segnata da ogni tipo di ferita, abbisognano dell’annuncio della misericordia del Signore. Quando Papa Francesco dice: «La Chiesa oggi possiamo pensarla come un “ospedale da campo” … Lo vedo così, lo sento così: un “ospedale da campo”.

C’è bisogno di curare le ferite, tante ferite! Tante ferite!», di fatto fa prevalere su altre immagini della Chiesa, che certo non nega né esclude, quella di una Chiesa che cura le ferite, che si piega sull’uomo, che non ha paura di essere contagiata, che sceglie la prossimità dei peccatori e di tutti coloro che hanno bisogno di salvezza.

Comprendiamo bene queste sue parole: «Né lassismo né rigorismo [ma] una misericordia [che è] sofferenza pastorale. Soffrire per e con le persone. E questo non è facile! Soffrire come un padre e una madre soffrono per i figli; mi permetto di dire, anche con ansia. Non avere vergogna della carne del tuo fratello. Alla fine, saremo giudicati su come avremo saputo avvicinarci a ogni carne».

 

In tutti gli interventi di Papa Francesco c’è un’insistenza sulla doverosa “prossimità”, sulla vicinanza, sul farsi prossimo (cfr. Luca, 10, 36) alla carne del fratello, che è carne umana, di uomini e donne piagati dalla sofferenza e dal peccato, bisognosi di qualcuno che si prenda cura di loro. Ma a nessuno di noi sfugge che questo è semplicemente lo stile di Gesù nel Vangelo, del Gesù che è venuto «a portare la buona notizia ai poveri, a proclamare la liberazione ai prigionieri, ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a predicare un anno di grazia del Signore» (cfr. Luca, 4, 18- 19; Isaia, 61, 1-2).

Sovente rischiamo di avere sulla Chiesa uno sguardo che non è lo sguardo di Gesù: vediamo la Chiesa come comunità di salvati, insieme di eletti, come realtà in cui ci sono “giusti” distinti da ingiusti e peccatori, ravvisabili sempre negli altri fuori dalla Chiesa, quando non addirittura chiamati e giudicati nemici della Chiesa. Lo sguardo di Gesù, invece, vede la Chiesa, sua sposa amata, come una comunità di peccatori sempre da lui perdonati nel dono del calice, una comunità che non ha consistenza in se stessa ma solo nella fede in Cristo. Chi è il peccatore? «Innanzitutto io», dice il cristiano, e si guarda bene dal giudicare gli altri.

Quando il Papa, con il suo linguaggio diretto e pieno di misericordia, più volte ha esclamato, anche nel corso di omelie: «Chi sono io per giudicare?», ha assunto la postura di Gesù di fronte all’adultera: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più» (Giovanni, 8, 11), e ha messo in pratica in modo epifanico il comando di Gesù: «Non giudicate e non sarete giudicati» (Luca, 6, 37; cfr. Matteo, 7, 1), che deve essere letto accanto a: «Siate misericordiosi e otterrete misericordia» (cfr. Matteo, 5, 7). In questo si mostra anche fedele successore di Pietro, che così si giustifica per aver battezzato degli incirconcisi a Cesarea: «Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?».

Dicevano i padri del deserto: «Chi riconosce di essere peccatore, e dunque riconosce il proprio peccato, è più grande di uno che risuscita i morti». Ecco la misericordia schietta, evangelica: non il lassismo di chi non discerne il bene dal male, ma una vera assunzione di responsabilità verso l’altro, il peccatore, una capacità di mostrare la misericordia che è il volto stesso di Dio. Per questo il Papa, in un’altra omelia, annota che «il perdono di Gesù va oltre la legge», che chiede la punizione.

«Gesù va oltre la legge … Questo è il mistero della [sua] misericordia … Gesù difende il peccatore anche dalla giusta condanna». Eppure la severità a volte emerge con forza nelle parole di Papa Francesco, severità mai contro i peccatori, ma contro i «corrotti», che per lui sono i peccatori che si sono venduti, coloro che vivono il peccato in modo nascosto e senza pentimento, fieri di non essere scoperti, i peccatori «con i guanti bianchi», che approfittano della loro posizione di potere sacrale o ecclesiastico per peccare più facilmente e impunemente.

Il tema della misericordia e della Chiesa misericordiosa è riproposto con forza da Papa Francesco in un passaggio dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, che cita a sua volta Tommaso d’Aquino: «La misericordia è in se stessa la più grande delle virtù, infatti spetta ad essa donare ad altri e, quello che più conta, sollevare le miserie altrui. Ora, questo è compito specialmente di chi è superiore».

Papa Francesco vuole che nella Chiesa regni la misericordia e anche le due assemblee sinodali dedicate alla famiglia e alle sue fragilità sono state pensate e strutturate in modo tale che la Chiesa si possa interrogare sulla misericordia, soprattutto verso quelli che non vivono le storie dell’amore conformemente alla volontà del Creatore e di Cristo Gesù. È ormai chiaro a tutti coloro che si interrogano onestamente che non si tratta di mutare il Vangelo, perché le parole di Gesù sul matrimonio fedele (cfr. Marco, 10, 1-12; Matteo, 19, 1-9) sono la volontà di Dio detta una volta per sempre.

Si tratta invece di affermare come questi cristiani in contraddizione con la volontà di Dio possano, nella comunità del Signore — comunità di peccatori sempre purificati e perdonati — avere il loro posto ed essere nutriti da Dio stesso, come i loro fratelli e sorelle, nel cammino verso il Regno.
Ritengo che nell’intenzione di Papa Francesco ci sia la volontà di porre fine a ogni “intransigentismo”, e il cammino sinodale intrapreso condurrà la Chiesa tutta a esprimersi con l’aiuto dello Spirito santo.

Papa Francesco ha messo in atto con risolutezza il principio cattolico formulato da Papa Bonifacio VIII e ripreso da Yves Congar come principio di vita ecclesiale, soprattutto sinodale: Quod omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet (Decretales, Liber sextus, 5, 12, 29), «quello che riguarda tutti, da tutti deve essere trattato e approvato». Davvero questo pontificato si sta rivelando un tempo per la misericordia di Dio, un tempo in cui il cuore della Chiesa si fa carico della miseria umana, a immagine del suo Signore, ricco di misericordia. (Enzo Bianchi )

(articolo tratto da www.monasterodibose.it)

 

 

Lascia un commento